mercoledì 8 febbraio 2012
08.02.2012 DI CASA IN CASA
Le case del villaggio di Galye Rogda si assomigliano tutte: capanne circolari con le pareti di fango e sterco e il tetto conico di canne. All’esterno in questo periodo hanno tutti almeno un covone di teff, sacchi pieni di peperoncino, qualcuno ha un asino o una capra , a volte le galline. Sempre ci sono bimbetti seminudi che urlano e giocano. Se ci si avvicina i bimbi si moltiplicano uscendo dall’oscurità delle loro capanne. Sono stata con il personale della sanità pubblica a visitare qualche villaggio, in genere si fanno programmi di nutrizione, colloqui sulla prevenzione della malaria, si insegna a costruire e utilizzare le latrine, si controllano le fonti di acqua, si fanno vaccinazioni ai bambini e alle madri. L’altro giorno ho avuto l’occasione di andare di casa in casa a parlare con la gente, a chiedere dove prelevano l’acqua, di cosa si nutrono, la distanza dalla scuola, la salute dei figli. Seduti all’interno di una capanna adibita a cucina o all’esterno su di una stuoia o dentro ad un magazzino per le granaglie la gente etiope è davvero accogliente. Ti vorrebbero offrire anche ciò che non hanno e se sentono che il forenji, lo straniero, parla qualche parola della loro lingua si sciolgono e si aprono in sorrisi enormi. Le mie braccia piene di braccialetti colorati sono quasi sempre un input per fare amicizia, attraggono troppo donne e bambini. Dopo una giornata trascorsa tra case, latrine, visita al fiume, e dopo aver ringraziato ma rifiutato più volte la birra locale che avremmo dovuto bere a stomaco vuoto, alla fine abbiamo ceduto. Alle quattro del pomeriggio senza aver mangiato nulla e dopo aver finito l’unica bottiglietta di acqua , sotto un sole ancora prepotente, siamo entrati nell’oscurità fresca di una casa e ci siamo lasciati tentare dalle panche fatte di fango ricoperte di pelli di capra essiccate. Il bracere a lato della cucina è ancora caldo, le pentole e le stovilgie sono ben riposte sulle mensole anch’esse di fango, è una cucina di una famiglia ricca. Ci vengono lavate le mani con tanica e bacinella e ci viene offerta injera con shiro, piccantissimo! Segue una tazza di fresca birra locale fatta fermentare nelle taniche fuori di casa…va giù bene dopo il sugo piccante ma qualche minuto dopo la sentirò tutta nella testa! Mentre si chiacchiera e si gioca con l’ultimo genita della casa, una bimba dell’età di Geremia, arriva la macchina a prelevarci, si torna a casa: all’acqua corrente, al forno microonde, alla cucina elettrica. Ma l’immagine delle piccola che mentre è attaccata al seno della mamma gioca con il suo viso e fa versetti non mi abbandonerà perché anch’io quando torno a casa tra i miei elettrodomestici rivivrò la stessa identica scena con Geremia attaccato al seno che ripete gesti tali e quali. Chissà se anche il sorriso che faccio guardandolo è lo stesso della mamma che ci ha aperto la sua casa.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Leggo sempre con partecipazione il tuo blog,e in questo periodo per me molto doloroso (è deceduto improvvisamente mio fratello in un incidente stradale e i problemi di salute della mamma ultranovantenne si sono acutizzati), mi dà un pò di conforto. Nella vita purtroppo si attraversano dei momenti veramente difficili ma bisogna cercare la strada per affrontarli al meglio. Hai descritto veramente con partecipazione il tuo andare di casa in casa, tanto che mentre leggevo mi sembrava di essere presente. Ho scritto in agenda di non so quale anno il mio prossimo viaggio in Africa, ma voglio proprio realizzarlo... un abbraccio a tutti voi Giuliana
RispondiElimina